Siete genitori? Avete mai portato a letto con voi i vostri bambini piccoli? Prima o poi, vuoi per stanchezza, per sfinimento o anche solo per comodità, capita a tutti, anche agli irriducibili, di sperimentare il co-sleeping. E non c’è niente di più facile che sentirsi dire da amici e parenti che non c’è cosa più sbagliata. Ma sarà vero?
Portare nel proprio letto i bambini che non dormono è una pratica molto comune: esasperati dalle notti in bianco, si fa qualsiasi cosa pur di guadagnare qualche minuto di sonno. Attenzione, però! E’ una pratica che aiuta nelle prime fasi della vita familiare, ma che può avere molte controindicazioni, soprattutto quando si protrae troppo a lungo nel tempo. Quindi, come per molte altre cose che fanno parte della nostra quotidianità, ciò che può essere dannoso è il ripetersi della pratica, che alla lunga diventa abitudine e vizio.
Da un punto di vista scientifico, esistono diversi approfondimenti sulla materia e non è difficile documentarsi in merito. Proviamo a vedere insieme cosa ci dice chi ha studiato il fenomeno sul campo…
Cosa dice la psicologia
Il termine co-sleeping, letteralmente “dormire insieme”, viene utilizzato per indicare tutte quelle situazioni della prima infanzia in cui il bambino dorme insieme a uno o entrambi i genitori per l’intera notte o parte di essa. Tale termine è generale e può riferirsi sia alla condivisione della stanza (room sharing) sia alla condivisione del letto (bed sharing). In letteratura vengono descritte differenti categorie di co-sleeping, distinte in base all’età di insorgenza del fenomeno.
Ciascuna di essa definisce il co-sleeping: primario, secondario e tardivo.
Il co-sleeping primario, che fa riferimento al primo anno di vita, è una scelta dei genitori ed è collegato all’allattamento al seno; quello secondario o reattivo, inizia di norma dopo i dodici mesi e si protrae fino al compimento del secondo-terzo anno di vita, in risposta a un disturbo del sonno del bambino o a cattive abitudini dei genitori; quello tardivo, infine, definisce i casi in cui il bambino, in età scolare, dorme in maniera stabile e continuativa con uno o entrambi i genitori e questa abitudine si protrae fino all’adolescenza.
Cosa cambia nella coppia
La nascita di un bambino comporta dei cambiamenti nella relazione di coppia ed un ruolo significativo lo riveste la relazione simbiotica che si va a creare tra la mamma e il bebè. Il papà ha un compito complesso ma importantissimo: essere presente, sostenere e proteggere! Si crea la triade madre-bambino-padre.
Ma può accadere che il papà si senta escluso dalla diade madre-bambino e per questo possa sentirsi geloso: non ha più la sua compagna tutta per sé. La neomamma invece è totalmente assorbita dal piccolo indifeso e bisognoso. Tutto ciò, a volte, diventa causa di fraintendimenti e tensioni. Il co-sleeping agito e non discusso tra i neogenitori può aumentare le sensazioni di esclusione da parte del padre e di incomprensione da parte della madre.
Se da un lato favorisce l’allattamento materno, grazie alla vicinanza tra mamma e bambino, dall’altro può favorire il riposo di tutta la famiglia. Il sonno dei bambini, infatti, può diventare un grosso problema per i genitori.
Esistono bambini che dormono ovunque, per tutta la notte, e in quel caso la questione non si pone. Ci sono, però, altri pargoli che si svegliano frequentemente: in questo secondo caso, mettere il piccolo nel lettone con i genitori può rassicurarlo e aiutarlo a riposare meglio e di più. Inoltre, la condivisione del letto può aiutare a gestire con più tranquillità da parte dei genitori i risvegli notturni del bebè. È una coccola, aiuta a sentirsi più vicini, soprattutto quando si trascorrono molte ore distanti durante il giorno.
D’altra parte, però, può influire negativamente sull’intimità di coppia; o almeno, questo sostengono alcuni detrattori della pratica del co-sleeping. In realtà, l’effetto che il co-sleeping può avere sull’affiatamento della coppia ha una notevole componente soggettiva.
Se il co-sleeping diventa un pretesto
Ci sono poi casi di coppie già in crisi in cui il co-sleeping diventa una scusa e un rifugio, accentuando i problemi di relazione fra i genitori. Il co-sleeping tardivo può essere, infatti, un segnale di problematica di coppia: il figlio si ritrova tra mamma e papà, che in questo modo evitano inconsapevolmente di affrontare i conflitti coniugali.
Il bambino piange, non vuole stare nella sua cameretta, quindi dorme con la mamma… e il papà si trasferisce sul divano.
Un occhio per la famiglia, uno per noi
Ogni relazione d’amore tra due partner ha la sua storia e i suoi punti di fragilità, che con la nascita di un figlio possono emergere in modo lampante. E’ importante che i neogenitori siano consapevoli di questo processo e che non venga caricato il figlio di responsabilità che non ha.
Curare la relazione di coppia vuol dire anche ritagliarsi giornalmente una quantità di tempo, suddividere i lavori domestici e familiari in modo che nessuno dei due partner senta il sovraccarico, conservare un’intima complicità e riconoscere e rispettare sia i bisogni individuali sia quelli di coppia.
I partner devono saper affrontare la sfide di nuove relazioni parentali, il posto dei figli in famiglia deve sempre essere con mamma e papà e non tra loro. Pertanto, durante la crescita, è opportuno limitare le incursioni nel letto genitoriale e favorire la capacità di elaborare la separazione dalle figure di attaccamento e l’instaurarsi di una progressiva autonomia.
Naturalmente se una coppia di genitori si accorge di essere in difficoltà può chiedere aiuto, sia rispetto alla ricerca di un supporto sociale sia di un professionista con cui approfondire ciò che sta accadendo.
Quindi, dormire insieme ai propri bimbi, se accade una volta ogni tanto, non è un male, ma non deve diventare una consuetudine che si protrae troppo a lungo nel tempo. E, come diceva lo scrittore statunitense Ralph Waldo Emerson: “Per quanto si possano amare i propri figli, non c’è mai stato un bambino così adorabile che sua madre non sia stata felice di mettere a dormire”.